Note d'autore
Giovanni Serioli è nato a Passirano (Bs) il 26 febbraio 1935. Vive a Iseo dal 1965. Disabile dall’età di 4 anni, dal settembre 2020 è ospite presso l’RSA Cacciamatta di Iseo dove l’11 gennaio 2021 è deceduta la cara moglie Maria. Rimasto solo, ha passato le sue giornate scrivendo a mano e in stampatello su dieci quadernoni i ricordi della sua vita. Il figlio Gianluca li ha raccolti, ordinati e romanzati. Da essi sono nati tre libri, le stagioni del «GIOVANE GIOVANNI».
Gianluca Serioli, 56 anni, Iseo, è l’unico figlio di Giovanni. Imprenditore nel settore turistico d’accoglienza, promoter organizzatore di eventi, editore e redattore del periodico di informazione locale “Punto d’Incontro”, ama da sempre scrivere, particolarmente racconti e storie vere o immaginate legate al proprio paese, Iseo.
Editore: Marco Serra Tarantola editore
Pagine: 376
ISBN: 9788867774241
Andiamo a conoscere Giovanni Serioli attraverso un'intervista al figlio Gianluca Serioli (coautore del romanzo):
Come ricorda Giovanni Serioli, il momento in cui ha deciso di iniziare a scrivere la sua storia?
Penso che per mio padre si sia trattato di una sorta di liberazione. Mia madre era venuta a mancare da neanche un mese, e a seguire erano passate a miglior vita la sorella e la cognata, tutte ospiti del ricovero Cacciamatta, dove si trova ancora oggi mio padre. Erano i primi mesi del 2021 e a causa del covid vi erano ancora molte restrizioni per i parenti degli ospiti nel ricovero. Io, come tutti, potevo fare visita una volta a settimana, per massimo mezz’ora, con tanto di mascherina, prova della temperatura corporea all’ingresso, possesso del green pass. In uno di quegli appuntamenti, mio padre, che ha sempre parlato pochissimo con me, mi confida di essere rimasto ormai solo, e di avere tantissime cose della sua vita, davvero fantastica, nel bene e nel male, che ormai non può più condividere con nessuno e vorrebbe lasciarle a me e ai nipoti. Mi chiede se sono disposto a riordinare e romanzare gli appunti che lui ha iniziato a scrivere su fogli volanti. Li leggo e noto da subito la lucidità degli episodi citati, i dialoghi, gli aneddoti. Gli chiedo perché proprio io dovrei farne un libro e lui mi risponde: “Perché tu sei bravo a scrivere”. Per me si è trattato di uno dei pochissimi complimenti ricevuti da mio padre, con il quale non ho mai avuto un grande rapporto empatico. Da lì è cominciato tutto. Lui durante la settimana scriveva i suoi appunti su dei quaderni che io gli avevo portato. Una volta finito un quaderno io lo portavo a casa, riordinavo gli appunti, romanzavo e mettevo tutto su computer, stampavo quello che avevo fatto e lo riportavo a mio padre per aver il benestare. Alla fine lui ha scritto 10 quaderni, tutti in stampatello, e solo i primi tre hanno originato il primo volume della trilogia del Giovane Giovanni, un romanzo di 376 pagine.
Può raccontarci qualche aneddoto particolare dell'infanzia di suo padre che ritiene significativo?
Nel libro ce ne sono tanti. Lungo la trilogia si sviluppano oltre 50 personaggi, ognuno con la sua particolarità fatta di generosità, ilarità, ironia, in alcuni casi, pochi, anche di cattiveria. Non per niente il libro è presentato come un percorso fatto di disabilità e virtù, emarginazione e solidarietà, miseria e agiatezza, cuori buoni e cuori cattivi. Se proprio devo sceglierne uno, mi piace citare l’episodio dell’appendicite. Giovanni è già in età adolescenziale avanzata. Dopo un anno presso il laboratorio odontotecnico ha acquisito già grandi competenze, tanto da essere di grande aiuto nel recuperare gli arretrati per via di una mole di lavoro sempre più pesante, e da meritarsi l’assunzione definitiva, quello che oggi si dice “tempo indeterminato”. I suoi datori di lavoro, i dottori Giannì, tre fratelli, continuano a prendere lavoro senza curarsi delle difficoltà del laboratorio odontotecnico nel rispettare i tempi di consegna. Emerge la storica rivalità tra odontoiatri e odontotecnici. Da una parte coloro che si reputano superiori in virtù di una laurea e di una condizione di medio alta borghesia, dall’altra gli odontotecnici, che orgogliosamente ricordano che senza le certificazioni di lavoro eseguito a regola d’arte, che solo loro possono dare, gli odontoiatri sarebbero in braghe di tela e perderebbero clienti e soldi. Succede che una sera, dopo la festa in un bar del paese tra coloro che avevano sostenuto la visita militare di leva (dove incredibilmente Giovanni viene fatto rivedibile invece di essere esonerato per via della sua disabilità), Giovanni si sente male e passa una notte di inferno. Viene ricoverato all’ospedale ,viene operato d’urgenza di appendicite quando questa è quasi sfociata in peritonite. La settimana successiva, dimesso dall’ospedale, riceve la visita del professor Giannì, dei tre fratelli il più carismatico e tronfio. Giovanni è orgoglioso di ricevere la visita, la madre addirittura sorpresa che un dottore dicosì alto livello si degnasse di andare in visita di un suo dipendente in un paesello sperduto nella campagna e in una umile dimora quale era la casa di Giovanni. In realtà, dopo averci girato un po'intorno, la preoccupazione del professore era data dal fatto che in laboratorio senza Giovanni il lavoro era fermo, gli arretrati aumentavano pari alle lamentele dei clienti pazienti. Insomma, il professore in realtà era andato in visita allo scopo di convincere Giovanni, convalescente e dolorante nel letto di casa, a riprendere il lavoro prima possibile, meglio se subito. La madre non ne volle sapere e si arrabbiò molto. Giovanni invece disse che avrebbe potuto anche mettersi a disposizione, ma non ce la faceva proprio a raggiungere Iseo e il laboratorio ogni giorno con i propri mezzi, perché il dolore era ancora forte. Si trovò così un compromesso: il professor Giannì si sarebbe messo a disposizione facendo da autista a Giovanni,portandolo avanti e indietro con la sua lussuosa auto, mattina e pomeriggio, pranzi compresi.Fu così che Giovanni, umile odontotecnico senza ancora un diploma, si ritrovò ad avere per una settimana come chaffeur personale il proprio datore di lavoro, il tronfio e carismatico professor Giannì. Sicuramente un momento esilarante per il primo e imbarazzante per il secondo. La rivincita del dipendente sul “padrone”.
Come definisce Giovanni l'esperienza nel mondo del lavoro come odontotecnico, e come ha affrontato le sfide legate alla disabilità?
Imparare il lavoro di odontotecnico è stata la svolta della sua vita, così come trovare una persona tanto sensibile, disponibile e competente come Gino Sora, suo mentore, che con grande pazienza e usando la tecnica del bastone e della carota lo ha formato non solo nella tecnica lavorativa e nell’apprendimento di una professione che in quei tempi era sconosciuta a molti, ma anche nel carattere. Nel libro ho voluto lasciare ampio spazio a passaggi legati alle tecniche di lavorazione, alle caratteristiche del lavoro di odontotecnico e ai dialoghi tra mio padre e Gino Sora. L’ho fatto volutamente, anche se potrebbero risultare stucchevoli e noiosi ai lettori. In realtà spero che i lettori percepiscano invece in quei passaggi, molto tecnici, la passione che Giovanni ci metteva per imparare e nel fare le cose per bene, con entusiasmo che spesso e volentieri Gino Sora doveva frenare. Il lavoro di odontotecnico e la stima che mio padre si è guadagnato dai dentisti odontoiatri che gli commissionavano tantissimo lavoro che lo costringeva a lavorare spesso anche di notte, hanno costituito la corazza che ha permesso di poter affrontare la vita sempre con determinazione, ottimismo e fiducia in un futuro migliore, anche nei momenti più cupi e difficili. Come ha affrontato mio padre le sfide legate alla disabilità? Contrariamente a quello che si può pensare, il momento più difficile nella vita di mio padre non è stato quando all’età di soli 4 anni si è ritrovato ricoverato in un ospedale di Venezia, lontano centinaia di chilometri da casa, restando in degenza per 4 lunghi anni senza che i genitori potessero raggiungerlo, ma è stato quando all’età di vent’anni cominciava ad avvertire il bisogno di avere un amore, una compagna con cui condividere le sue gioie e i suoi pensieri, e a differenza dei suoi amici purtroppo non riusciva a trovarla per via della sua evidente disabilità. Ecco, in quesi momenti è stata importante quella corazza di cui dicevo, e anche l’ironia che mio padre non si è mai fatto mancare, neppure da giovanissimo.
Come descriverebbe il rapporto con sua moglie Maria e l'impatto della sua perdita?
In una sola parola: inseparabili. L’esempio lampante del detto “Dio li fa poi li accoppia”. Si sono trovati, si sono sostenuti tutta la vita reciprocamente, essendo tutti e due invalidi. Prima di conoscere mia madre, mio padre era convinto che non sarebbe mai riuscito a trovare l’anima gemella, per via della sua disabilità che gli aveva causato anche qualche rifiuto per così dire “umiliante”. Mia madre invece sembrava rassegnata a una vita di sacrifici al servizio della sua famiglia originaria: prima di cinque fratelli, una situazione familiare difficile a livello economico, come la maggioranza in quei tempi, lavorava alla Filanda del paese, poi puliva gli studi medici della Mutua, si occupava delle faccende di casa e faceva pure la lavandaia. Mio padre e mia madre hanno combattuto le loro battaglie sempre insieme, la prima delle quali quella della famiglia di lei che non voleva che sposasse uno storpio, ma penso anche perché così facendo veniva a mancare un apporto di fatica molto importante all’interno della famiglia. Poi, con il successo del lavoro di odontotecnico che gli cambiò la vita regalandogli la meritata agiatezza, mio padre costruì una casa indipendente, dove tutt’ora vivo, sul lago d’Iseo, e lì realizzò un appartamento che mise a disposizione proprio dei suoceri, di modo che mia madre e mia nonna potessero rimanere a stretto contatto. Mio padre non ha mai portato rancore per nessuno, è sempre stato forte con i forti e debole con i deboli, nel senso che ha sempre mostrato sensibilità e generosità nei confronti delle persone che avevano bisogno. Quando la salute di mia madre è peggiorata in modo importante ed è subentrato l’alzheimer, per un anno abbiamo avuto il sostegno di una badante, che si occupava durante il giorno sia di mio padre che di mia madre. Poi sono subentrato io per qualche mese. Alla fine, quando la situazione è diventata insostenibile, si può dire che nella tragedia del covid sono stato fortunato a trovare subito posto al ricovero del paese, che solitamente aveva liste di attesa lunghissime, ma la pandemia aveva decimato le presenze nella struttura. Così, dopo avere condotto una vita sempre insieme, mia madre è entrata al ricovero e mio padre ha voluto a ogni costo seguirla e sono stati messi in una camera matrimoniale, ancora e sempre insieme. Mia madre però dopo neppure un mese ha cominciato a non riconoscere più mio padre, per via della malattia, e penso che quello per lui sia stato il periodo di più grande sofferenza, perché essendo lui lucidissimo, come lo è ancora oggi, capiva che sua moglie, la compagna di una vita, non era più lì con lui, ma era in un altro mondo tutto suo. Alla fine hanno dovuto separarli e tre mesi dopo mia madre è deceduta.
Che ruolo ha giocato per Giovanni la scrittura, nel superare i momenti di solitudine e tristezza?
Tra gli scrittori che più mi piacciono, forse per la stessa natura semplice, diretta, quasi aspra e per la scrittura scorrevole, c’è Mauro Corona, il montanaro di Erto e del Vajont, che prima di essere un apprezzato scrittore, nasce come virtuoso scultore del legno. Corona, quando è stato travolto dal clamoroso successo dei suoi libri, ha più volte affermato che lui scriveva e scrive per fuggire da qualcosa. Mio padre sicuramente si è messo a scrivere per sentirsi meno solo, ma soprattutto perché avvertiva quella fortissima necessità di lasciare a me e ai suoi nipoti una traccia del suo passaggio. Una volta deceduta mia madre, ingannava le sue giornate con la Settimana Enigmistica e qualche partita a dama, anche se non riusciva mai a trovare un avversario degno di giocare una partita come si deve. E’ ancora oggi una delle poche persone lucide ospite del ricovero. Più volte mi aveva espresso il desiderio di scrivere i suoi ricordi, perché si era reso conto che tutte le persone che avevano condiviso con lui quei tempi erano passate a miglior vita, era rimasto solo lui. Ha deciso così di scrivere la storia della sua vita, e penso che lo abbia fatto sì per combattere la solitudine, ma su tutto proprio per “svuotarsi” di tante cose che aveva dentro e che mi piace pensare che volesse che io finalmente capissi dopo una vita passata senza che ci fosse un rapporto empatico. Quali sono stati i passaggi più difficili nel trasformare i suoi quaderni in una trilogia? Mio padre ha scritto 7 quaderni e 3 quadernoni, tutti rigorosamente in uno stampatello perfetto. La cosa che più mi ha sorpreso è che in essi ho trovato dialoghi veri e originali, nel senso che a distanza di 85 anni mio padre si ricorda ancora non solo gli aneddoti e gli episodi, ma anche le parole, le esclamazioni, le caratteristiche di ogni persona fatta oggetto del racconto. Io mi sono limitato a raccogliere tutti questi appunti, riordinarli e romanzarli, cercando però di mantenere il più possibile l’autenticità dei dialoghi, a volte lasciando volontariamente anche dei modi di dire che al lettore potranno apparire come errori grammaticali. A mio padre ho chiesto delle integrazioni necessarie, come poteva essere la descrizione dei paesaggi, quello che si mangiava ai tempi, eventi particolari, creando così il contesto, un quadro dentro il quale illustrare la storia. Non è stato proprio facile, perché spesso c’erano dei salti di periodo, si andava avanti di cinque anni per poi tornare indietro e poi di nuovo avanti. Ma è stato un lavoro appassionante. Mi sono emozionato mentre lo scrivevo, e spero che il libro commuova ed emozioni anche i lettori. Dalle prime recensioni e presentazioni sembra proprio di sì e questo mi fa piacere. Ho eliminato pochissimo, a costo anche di ripetere certi passaggi e anche di risultare stucchevole, come nell’ossessione di descrivere le fasi di apprendimento e di lavorazione nell’imparare il lavoro di odontotecnico. Ma l’ho fatto apposta, perché da quei passaggi si percepisce la forte passione di mio padre verso un lavoro che poi gli cambierà la vita e gli regalerà anche la meritata agiatezza dopo tanta miseria vissuta da piccolo. Alla fine con soli tre quaderni è nato il primo libro. Abbandonare l’idea di fare uno solo libro è stata una scelta obbligata, in quanto avrebbe originato un tomo di oltre 800 pagine che nessuno avrebbe avuto il coraggio di leggere. Da qui l’idea di fare una trilogia: la stagione dell’infanzia e dell’adolescenza, poi la stagione della maturità, e infine gli anni d’argento, quelli trascorsi nella stanza e davanti alla vetrata del ricovero Cacciamatta. Una sorta di Rechèrche proustiana, naturalmente più umile.
Cosa spera che i lettori possano imparare o trarre dalla lettura delle memorie di suo padre?
Mi piacerebbe che questo primo libro venisse letto nelle scuole. Emergono e si avvertono forte tre valori fondamentali che i tempi sempre più frenetici della società moderna stanno soffocando: la solidarietà, la famiglia, intesa come focolare e “bene rifugio” al quale puoi attaccarti qualsiasi cosaaccada durante la tua vita. Ma soprattutto la resilienza, ossia quella forza e quella fiducia in un futuro migliore che ti spingono a superare momenti difficili, considerati a volte come strade senza uscita o senza ritorno. C’è una citazione che si ripete in conclusione di ogni libro della trilogia: “… e se lavorerai di buona voglia, il frutto arriverà dopo la foglia”. Significa che bisogna sempre crederci, metterci coraggio, fiducia e passione, e se hai accanto anche una famiglia o qualcuno che ti sostiene e ti stimola, la salita diventa meno faticosa.
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